Uno dei testi goldoniani più intensi, “L’impresario delle Smirne”, va in scena venerdì 25 luglio alle 21,15, al teatro romano di Ferento, nell’interpretazione di Giuseppe Pambieri con Maximilian Nisi, Maria Letizia Gorga, Tiziana Bagattella e con Tony Allotta, Barbara Abbondanza, Sebastiano Colla, Antonio Fermi, Bruno Viola, Aldo Vinci, Azaiez Riahi per la regia di Massimo Belli.

 

Nell’impietoso ritratto che Goldoni compie dell’ambiente degli artisti di teatro - “di cui posso parlarne per fondamento”, come lui stesso dichiara ne “L’autore a chi legge”, prefazione de “L’impresario delle Smirne” - vi è una lucida disamina di un mondo in corsa verso il proprio annientamento, inconsapevole o indifferente nel muovere passi incerti tra le ruine che sta per produrre la Rivoluzione francese.

 

Il pretesto è l’analisi della vita di un gruppo di comici spiantati e affamati “spiati” nella vita come dietro le quinte per svelarne le verità e metterne a nudo i momenti privati. Distratti dalle loro piccole beghe e rivalità, occupati a farsi la guerra per far carriera, invidiosi di una posizione nella gerarchia di palcoscenico, di un costume più o meno sfarzoso, di un privilegio in più e soprattutto di avere una paga uno più alta dell'altro, non si accorgono di essere delle piccole sciocche marionette i cui fili vengono manovrati da chi il potere veramente ce l'ha. Il cinismo di Goldoni vuole che al bieco carattere degli artisti si leghi la strategia di asservimento ai propri guadagni del Conte Lasca, protettore, manager come si direbbe oggi, abile nel “proteggere” in cambio di favori immediati.

 

E’ un affresco sul teatro e quindi sulla vita, se vale ancora come crediamo, l’indissolubile legame che vede nella decadenza dell’Arte la crisi di una società che non dà più nessun significato al dibattito intorno ai temi eterni dell’uomo, occupata com’è nel mestiere dell’arrivismo, della ricerca del profitto ottenuto con qualsiasi mezzo, anche con la perdita della dignità e del rispetto per se stessi. 

Al di là dei significati che se ne possono trarre è certamente un corale divertissement, che restituisce il clima lezioso e libertino dell’epoca, rispettata tra l’altro dalla regia, che pone in risalto i due mondi dove si inscrive la vicenda: quello debosciato e délabré della misera locanda investita dai miasmi di un canale veneziano, e l’opulenza esotica ed inarrivabile del turco dispensatore di assurde speranze.

 

Il destino, rigorosamente beffardo con gli opportunisti calcolatori, darà appuntamento alla compagnia pronta per l’imbarco al molo stabilito, tradendone tutte le aspettative: il turco Alì, stordito dalle lotte intestine, dai livori, e dalle presunte truffe, li abbandonerà soli senza soldi e senza futuro, nell’atmosfera tragicomica di un’ ultima disperata gelida alba.

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