Lunedì 4 Agosto, appena notte, le note struggenti de la Vie en Rose si srotolano su Piazza San Lorenzo e la memoria, fallace ed intermittente, torna a tempi antichi ormai, ma sinceri e feroci, i tempi di una Francia verso la quale abbiamo sempre avuto antipatia ma anche grande sintonia.
Solo un momento perché  tutto, intendendo il tutto di una vita difficile, eroica, grandiosa e disgraziata come quella di Edith Piaf, si materializza in un atto unico, impegnativo, difficile e sopratutto coraggioso come quello messo in scena da un gruppo di lavoro affiatato e rodato.

Il testo in primis su cui hanno messo mano Alfonso Antoniozzi ed Elda Martinelli dando senso e “continuità teatrale” al tutto. Hanno ripreso e svecchiato le uniche traduzioni in italiano di un autore come Jean Cocteau, troppo assente dalle scene attuali che privilegiano solo il disimpegno, da produzioni teatrali che hanno bisogno di riflessioni, anche amare e disperate, sulla condizione dell’uomo contemporaneo. In questa notte ci vengono riproposti testi e riflessioni che non risentono affatto del tempo “storico”, ma come piccole lampadine ne illuminano recessi negati anche a noi stessi.

La regia ed il progetto scenografico di Arcangelo Corinti, ormai uno dei nomi e cognomi storici del Teatro viterbese, ha privilegiato soprattutto l’assenza.
Il bianco il grigio, le vuote cornici, solo le rose rosse, quasi presagio dei fori di proiettile, l’unico cromatismo possibile nell’appiattimento di quel rapporto a due che frase dopo frase, domanda senza risposta, richiesta che cade nel vuoto, grido strozzato nell’indifferenza porteranno all’unica, inevitabile, comprensibile conclusione.

La prova ardua, affidata ai due attori, si può considerare superata con grande dignità e rigore. Laura Leo è riuscita ad evocare Edith Piaf senza farla rimpiangere; i tre brani conclusivi dello spettacolo, difficilissimi da eseguire all’ombra di una tale presenza, hanno trasmesso l’emozione di un percorso di costruzione del personaggio e del dramma esistenziale che, perdonando alcune incertezze interpretative, può considerarsi un ulteriore passo avanti del Teatro Viterbese. Teatro locale che può degnamente pretendere di confrontarsi con un “respiro” più ampio.

Luigi Gentile nella sua scarna ed essenziale azione scenica ha reso fisicamente evidente quella “estraneità”, noia, indifferenza, mitigata solo dalle note del pianoforte che però non giungono mai alla liberazione della creazione conclusa, così come il tentativo esasperato di comunicare non trova soluzione se non in un gesto estremo. Uno spettacolo denso, carico di tensione e, sottolineiamo ancora, coraggioso e  meritevole di altri palchi per conquistare quell’efficacia espressiva che  la regia e gli attori di quest’opera hanno dimostrato di poter raggiungere. Alla prossima  replica!

Guido Landucci

 

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