D. Antonello Ricci poeta, scrittore, studioso, maestro di strada, performer ha intrecciato la sua vita artistica a quella della sua città. Ogni suo verso, ogni sua provocazione politica si sovrappongono alla vita e alla storia di Viterbo, di una Viterbo “pallida madre”. Eppure questa è una delle poche città che ha opposto una resistenza attiva all’ascesa del fascismo al potere locale. A quel tempo la vita della cittadina si svolgeva ancora all’interno delle mura medioevali, dove c’erano piccole fabbriche e botteghe artigiane. Quartieri operai e palazzi nobiliari: un humus fertile per condividere idee socialiste e vivacità culturale. Una volta mi sono “imbucato” durante una tua lezione per bambini a Piazza del Gesù. Narravi di quella Viterbo, dei fatti del '21 con un trasporto che non hai mai quando racconti la Viterbo di oggi. Perché?

R. “Hai ragione. Non so risponderti. Forse perché quel passato – già così lontano dalla vita quotidiana del nostro presente ma, al tempo stesso, così vicino – è una materia emotiva sempre bollente ma non più incandescente, più dolce e malleabile sull'incudine della narrazione. Ma quegli anni sono anche una splendida metafora.Voglio dire che ogni passato, se davvero lo ascoltiamo, si ostina a parlarci, anche e sempre, del presente. A renderlo decifrabile. È incredibile pensare, per esempio, che novant'anni fa Viterbo era una città radicalmente diversa. Artigiana, popolare, antifascista. Vecchi repubblicani come leoni di peperino. Il decretone mussoliniano del gennaio 1927, quello che sancì l'ascesa di Viterbo al rango di capoluogo di provincia, fu insomma un vero e proprio esperimento di ingegneria genetico-politica: dobbiamo forse tornare a quel periodo se vogliamo dare un senso ai plebisciti elettorali dell'attuale centro-destra...”

D. Il fascismo avrebbe determinato per la città un futuro terziario e impiegatizio. Nuovi quartieri nacquero al di fuori del perimetro delle mura (nel secondo dopoguerra sarebbero venute le caserme volute dal potere democristiano) innescando una profonda trasformazione sociale. I neo-viterbesi furono per lo più burocrati e militari e portarono con sé i tipici comportamenti politici e culturali della piccola borghesia oscurantista: molto cattolica e molto fascista. Il risultato è che oggi tutti si lamentano dell'identità viterbese. Ma esiste davvero?

R. “Anche qui, non so dirti. Personalmente non amo molto i nominalismi e le metafisiche identitarie. Non so se abbia davvero senso parlare, come alcuni fanno, di una quidditas viterbese, di una autoctona “viterbesità” che avrebbe attraversato indenne i secoli per giungere fino a noi. Una vera e propria forma mentis peculiare del campanile locale. Sono convinzioni molto, molto scivolose. Auto-mistificatorie. Quando sento certi discorsi mi tornano in mente i molti aneddoti che sentiamo raccontare sulla Bella Galiana o su Santa Rosa: li sentiamo come antichissimi, quando in realtà si sono diffusi soltanto sul tramonto del secolo XIX, in uno specifico contesto storico e culturale, sulla base di istanze ideologiche e culturali ben precise. La verità è che ogni tradizione tende ad accreditarsi come “eterna”, laddove invece è frutto della storia. Nasce e muore in un tempo determinato. Trasformandosi incessantemente.”

D. L’avvento dei centri commerciali. La loro brutale filosofia di consumo ha legittimato l’essenza stessa della “ciambella”: una città che si espande attorno a un nulla. Sembra quasi che la sistematica devastazione di ogni grazia, di ogni potenzialità economica e di ogni praticabile modernità, perpetrata a Viterbo dal fascismo prima e dalle destre dopo, sia servita solo per fare spazio ai grandi magazzini. In questo clima di squadrismo globale è ancora possibile fare cultura? Dove? Con quale pubblico? Oppure ci dobbiamo rassegnare al motto: "Consenso e grandi sconti"?

R. “La saggezza del buddismo giapponese ci insegna che la battaglia è sempre là dov'è la nostra stessa vita. Ti faccio un esempio: rappresentare Sottoassedio a Viterbo è oggi molto più difficile di quattro anni fa: perché in questa città non ci sono più spazi per un teatro civilmente impegnato su temi di scottante attualità (l'eredità del fascismo nel dna di questo disgraziato Paese). Proprio per questo però, è ancora più importante esserci riusciti. Fondamentale è ostinarsi a combattere, a sorridere, a “creare valore” a qualunque livello della vita. Quest'ultima riflessione è già un'indiscrezione: sabato 19 infatti, accanto a Sottoassedio, presenteremo anche una piccola nuova sorpresa editoriale targata Ricci-Ghaleb... un'Arcio-strenna natalizia... ma non voglio dire di più. Vi aspetto tutti.”


La pièce di Antonello Ricci è appena diventata un libro

(Davide Ghaleb editore, 2009, illustrazioni di Alfonso Prota)

Sabato 19 dicembre, ore 21.00 – Viterbo

Libreria Malatesta presso ex-Ceramiche Tedeschi

(salendo da porta Romana alla caserma dei pompieri)

Presentano

Alfio CORTONESI, storico

Massimo ONOFRI, critico letterario

A seguire

SOTTOASSEDIO, Viterbo 1921-1922

di e con Antonello Ricci e gruppo teatrale "Volgiti, che fai"

"Volgiti, che fai": Carla Altieri, Michela Benedetti, Pietro Benedetti, Olindo Cicchetti,

Domenico Coletta, Sara Grimaldi, Edoardo Mantelli e Alfonso Prota (performance musicopittorica)

In mostra le illustrazioni di Alfonso Prota

www.ghaleb.it

NELLA FOTO: PIETRO BENEDETTI (il gerarca), SARA GRIMALDI (emma, coraggiosa popolana viterbese)


- Uno Notizie Lazio - Viterbo -




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