Uno straordinario viaggio in Patagonia sulle tracce di un grande scacchista da anni in volontario esilio nella sterminata regione sudamericana è al centro del secondo e intenso romanzo di Dario Pontuale, L'irreversibilità dell'uovo sodo (Gruppo Albatros Ed., pp. 200, Euro 14,00).
Il romanzo è stato presentato con successo a Viterbo Già autore de La biblioteca delle idee morte classificato al secondo posto nel prestigioso premio letterario “Mario Soldati”, Pontuale torna con un libro che riflette sull'angoscia del fallimento e sulle possibilità che giungono a riscattare e salvare una vita in apparenza senza sbocchi quale quella del protagonista, Gabriele Grodo, investigatore senza passione né estro, che arranca tra conti da pagare e clienti che non pagano, titolare di un'agenzia in procinto di chiudere. E qui sta il senso del titolo del romanzo: l'uovo è l'unico alimento che in acqua non rammollisce ma al contrario si solidifica, non potendo più tornare liquido.

Fenomeno tuttora senza spiegazione da parte della scienza, l'irreversibilità dell'uovo sodo simboleggia la condizione di tutti coloro che si sentono arrivati ad un punto di non ritorno e temono che nulla possa più cambiare nella propria esistenza. Il viaggio in cui Grodo si troverà catapultato compierà il miracolo: l'uovo sodo tornerà liquido, cioè la vita rappresa e statica di Gabriele Grodo si animerà di nuove prospettive, di progetti e slanci vitali in precedenza impensabili e impossibili.

I personaggi eccentrici e delicatamente poetici in cui il personaggio si imbatterà gli insegneranno a guardare il mondo da punti di vista diversi da quelli dell'abitudine, dell'apatia e dell'indifferenza, da cui tutto sembra già dato, già detto, già sentito. In fondo, quale che sia il punto d’arrivo del nostro viaggio è comunque meno importante del percorso che si è reso necessario per giungervi: questo l'insegnamento vitale de L'irreversibilità dell'uovo sodo.




POSTFAZIONE
di Silvio Scorsi

L’uovo sodo è irreversibile: il processo che lo trasforma segna un punto di non ritorno, l’uovo non tonerà più liquido, è solidi­ficato per sempre. Perché? La scienza non sa ancora rispondere. Piuttosto buffo che l’uovo sodo sia, almeno per ora, misterioso quanto l’origine dell’universo. Chissà che magari non vi sia in qualche modo implicato. Da quale tipo di uovo si è schiuso il mondo? In effetti, potremmo metterla anche in questi termini. Ma ciò che Dario Pontuale intende esemplificare con la curiosa questione dell’irreversibilità dell’uovo sodo è piuttosto il miste­ro in sé del punto di non ritorno, del dove e del modo in cui le cose umane smettono di essere liquide e plastiche, modellabili e informabili, per diventare solide e compiute, immensamente presenti, continuamente essenti. È il farsi passato del tempo umano, e il passato, quando diventa la dimensione temporale dominante a discapito del presente e del futuro, allora non è più che una stratificazione, un indurimento e una fossilizzazione del forme vitali e mutevoli con cui l’uomo si offre in principio alla vita, divenendo istante per istante se stesso.

Il protagonista del libro, Gabriele Grodo, investigatore privato senza estro né passione, sperso in Patagonia, ad un certo punto si trova nei pressi del Bosque Petrificado José Ormaechea. Qui avverte la forte suggestione allegorica di questo bosco di alberi pietrificati dalla stessa terra che un tempo li ha nutriti, e pensa di essere come loro, di essere rimasto sepolto nella materia di cui è fatto, come fosse paralizzato da un eccesso di sostanza vitale, di vita non vissuta, non spesa. L’assenza di un progetto, che desse direzione alle sue forze e alle sue confuse aspirazioni, ha finito per soffocarlo in un ingorgo di giorni che soltanto nella sclerosi dell’abitudine hanno potuto rinvenire un mezzo per darsi una struttura. A forza di subirlo, di esserne ricoperto e sepolto, il mondo è diventato un ente in fondo trascendente per Gabriele e, come tale, un fatto grigio e minaccioso, poco 192 conoscibile, poco interessante, poco coinvolgente, come tutto ciò che sovrasta l’esperienza viva senza mai esserne compro­messo. Il sentimento che più gli si addice è dunque la rasse­gnazione: tutto a Gabriele scivola dalle mani, il socio in affari, la segretaria, l’inaffidabile aiutante, i clienti che non pagano, i conti che invece bisogna pagare. Gabriele non legge, non ama i libri, perché sta alle cose come le cose stanno a lui, e le cose non esprimono in se stesse una storia, perché semplicemente sono.

Così aspetta, senza decidere. Aspetta che qualcosa accada, che le cose vengano al mondo da sole e che continuino a intasare e ingombrare con la propria presenza assoluta, cioè slegata dal resto, dalla complicata rete del senso. E infine qualcosa accade. Qualcosa accade sempre. Qualcuno chiama la desolata agenzia Grodo&Luccherini. È un nuovo cliente, Stefano Arduini. An­che lui per certi versi è un uovo sodo: dopo un banale incidente, è rimasto paralizzato, da anni ormai soffre l’irreversibilità della sedia a rotelle. Però, Arduini coltiva una passione divorante, una passione che può vivere da seduto, quella per gli scacchi. Gabriele ne è ammirato: “Taccio e ascolto. Quelle parole mi catturato. Nei suoni che fluiscono lenti dalla sua bocca odo tut­ta la passione per qualcosa. Stimo le persone che credono in qualcosa, pur piccola che sia”. In più, Arduini ha anche uno scopo.

Dopo la morte del campione italiano di scacchi Tomma­so Losanna, il nuovo cliente di Gabriele acquista la biblioteca del grande scacchista e fra le pagine di uno dei libri trova una busta proveniente dall’Argentina, da Buenos Aires. La busta contiene la notazione algebrica delle mosse di una partita appe­na cominciata tra Losanna e un ignoto giocatore dall’altra parte del mondo. Arduini non resiste e comincia a giocarla al posto dello scomparso Losanna. L’avversario risponde e, lettera dopo lettera, la partita si protrae per dieci anni e sette mesi. Ora, però, quella partita è finita: Arduini ha battuto il suo avversario con uno scacco di rimessa. Tuttavia, da quel momento, più nessu­na risposta, l’avversario non ha ancora riconosciuto la propria sconfitta. Il vero punto è che questi, secondo Arduini, non può che essere lo statunitense Alfred Molling, il più grande campio­ne di scacchi mai esistito, da anni ormai sfuggito alla propria invadente fama in una ostinata clandestinità. Per un fanatico

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degli scacchi come Arduini, non può esserci alcun dubbio: lo stile di gioco, l’inventiva, la genialità sono inconfondibili, sono del vecchio Fred, finalmente battuto da un oscuro dilettante quale Arduini. E Arduini vuole quella vittoria, la vuole perché da essa dipende il senso o, meglio, la sostenibilità di tutta la sua esistenza; se fosse vero, non avrebbe sconfitto solo Molling, ma anche l’irreversibilità di una vita ormai confinata nell’isolamen­to, segnata dalla perdita e dal tradimento degli affetti. Arduini pretende la dimostrazione che la passione a cui si è interamente votato ora possa ripagarlo imprimendo anche sulla sua vita un marchio di eccezionalità, la dimostrazione che era giusto ama­re così profondamente gli scacchi, perché gli scacchi, a tempo debito, avrebbero saputo essergliene grati, cioè che nel mondo esiste pure un principio di compensazione, di giustizia e d’ar­monia che spazza via, con un sol colpo, il caos, il dolore e la crudeltà imperanti.

Arduini assegna a Gabriele Grodo il compito di consegna­re l’ultima lettera a Molling e attendere che questi dichiari di aver perso. Gabriele accetta e parte per l’Argentina, alla ricer­ca di un campione di scacchi fuggiasco. È qui che ha inizio realmente il libro, è da qui che si avvia la “storia”: L’irreversi­bilità dell’uovo sodo può senza dubbio essere annoverato nella letteratura di viaggio. La storia dunque inizia ma Gabriele a questo punto non è ancora che l’ultima pedina da muovere in una partita che sta per volgere a termine. L’aereo, l’alber­go, il denaro sono stati tutti forniti da Arduini, Gabriele si limita ad eseguire un piano altrui, quel viaggio non è ancora suo, ne è agito interamente, per questo si sente inadatto, vale a dire quasi fuori luogo. Tutto ciò che desidera è che non ci siano complicazioni, che il lavoro sia semplice, il ritorno a casa immediato: si tratta per lui ancora solo di conseguire un risultato, ogni aspetto di quel che sta facendo si trova in rap­porto di mera utensilità e strumentalità rispetto ad un fine del tutto esterno al suo essere e al suo fare.

Il fine cade fuori dal mondo, in modo che quella che sta vivendo è solo la storia di un altro, la storia che preme ad un altro. Tuttavia, le cose non vanno così, non stanno così: il mondo e l’altro ci oppongono sempre resistenza anche, e soprattutto, quando le forziamo a
194 servirci per uno scopo. È proprio allora che ci fanno sapere più fortemente che ci sono, che protestano la propria autono­ma presenza, il loro peso per noi, soprattutto ci fanno sapere che esserci può anche significare non esserci, per esempio non essere al numero civico a cui ci saremmo aspettati di trovarli. Il che mette in questione anche il nostro di esser-ci, ci impone di riconsideralo, di fecondarlo con il nulla di un errore, di un imprevisto, di un altrove sempre ancora da raggiungere.

È questo che accade a Gabriele. Alfred Molling, infatti, ha architettato un complesso sistema di scatole cinesi per proteg­gere la propria fuga: ha inviato la risposta facendola spedire da ufficio postale ad ufficio postale. Ogni lettera contiene l’indiriz­zo successivo a cui essere inviata, del denaro per l’affrancatura e il disturbo arrecato. Il viaggio di Gabriele si complica e lo coinvolge sempre di più: ora è lui che deve scoprire quale sia­no le tappe successive, sta a lui crearsi un tragitto. Non è più soltanto un esecutore, ma un inventore, inventore di percorsi e sentieri. Mano a mano che si addentra nel cuore dell’Argentina patagonica, i mezzi di comunicazione si diradano, i tempi di percorrenza si allungano, gli incontri si moltiplicano. Il mondo astratto, moderno, efficiente e organizzato da cui Gabriele pro­viene cede il posto ad un altro più avventuroso, sgangherato e improbabile, ma proprio per questo più concreto e vicino, cari­co com’è di odori, sapori, parole, eventualità. Il fine del viaggio, che in principio si trovava fuori dal viaggio stesso e dal mondo, comincia ad essergli immanente. Gabriele sta cambiando, non è più colui che si immerge nel fiume del divenire mondano sem­pre diverso da se stesso e dunque sempre estraneo e straniero; Gabriele progressivamente sta identificandosi con il fiume, sta diventando parte del fiume, sta diventando il fiume. In tal sen­so, sta smettendo di essere un irreversibile uovo sodo, per con­seguire l’incessante e costituiva reversibilità del fiume eracliteo.

Ogni storia diventa di conseguenza la sua storia, quella in cui riesce a prefigurarsi e comprendersi. Lo abbiamo detto: Gabrie­le in principio non amava i libri, non leggeva, perché avrebbe dovuto? Le storie erano degli altri, non erano sue, il mondo lo sovrastava e gli era esterno, le cose accadevano separatamente le une dalle altre, atomizzate, senza relazione. Ma durante questo viaggio Gabriele legge un libro, Cuore di tenebra di Joseph Con­rad. Ne è sbalordito: la storia che legge è la storia che egli sta vi­vendo; come il Marlow conradiano, anche a lui è stato affidato il compito di ritrovare un uomo eccezionale, volontariamente allontanatosi dal proprio mondo, un Kurtz degli scacchi, e per farlo è costretto a inoltrarsi nelle profondità di un continente, in un ambiente remoto, ancestrale, in un cuore di tenebra. La sua storia è in un’altra storia, l’altra storia è la sua storia, non è più un individuo isolato e comune, è diventato quel che si dice un eroe, il suo destino assume un valore simbolico, rimanda ad altro da sé, cui si ricongiunge avventurosamente attraverso una fitta rete di rimandi che coinvolgono potenzialmente il mondo intero, serrandolo da parte a parte in una serie sterminata di rinvii e corrispondenze.

Le complicazioni che all’inizio Gabriele tanto temeva, le contorte traiettorie che uniscono l’inizio alla fine sono la sto­ria. L’impiego da parte di Dario Pontuale del topos investiga­tivo, peraltro in termini quanto mai lassi e ironici, non è che metaforico e significa che appassionante non è il caso risolto, bensì il risolverlo, l’ingegnosità che serve per farlo, il pericolo che si affronta e il cambiamento che ciò comporta. Quale sia il punto d’arrivo è comunque meno importante del percorso che si è reso necessario per giungervi. Chiudiamo allora con una citazione presente nel libro da una celebre poesia di Ko­stantin Kavafis, Itaca, altra pagina di grande letteratura che infiammerà e stupirà la coscienza di Gabriele:
Itaca tieni sempre nella mente,
la tua sorte ti segna a quell’approdo.
Ma non precipitare il tuo viaggio.
Meglio che duri molti anni,
che vecchio tu finalmente attracchi all’isoletta,
ricco dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?

- Uno Notizie Tuscia - Viterbo -

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