VITERBO - ultime notizie arte e spettacolo - Le quinte di Otello sarà in mostra dal 31 Ottobre al 28 Novembre 2010 presso lo spazio ProgettArte3D a Viterbo in piazza San Pellegrino, 1.
Inaugurazione: sabato 30 Ottobre 2010 ore 17:00.
Forse non tutti sanno o ricordano che per girare la sua personale rilettura cinematografica del testo shakespeariano dedicato al Moro, Orson Welles scelse come scenografia del film (Othello, 1952) luoghidiversi da quelli in cui la storia era ambientata. Non l’isola di Cipro, dunque, ma Venezia, il Marocco, Tuscania e, soprattutto, Viterbo. Nella capitale della Tuscia furono girate nel 1949 alcune tra le principali scene del film, con un ruolo speciale assegnato al Palazzo dei Papi, attraverso il cui colonnato, con soluzioni sceniche all’avanguardia per il tempo, al limite dell’effetto speciale, Welles fece persino magicamente intravedere il mare.
Invitato ad esporre il suo nuovo progetto dall’Associazione Progettarte3D nei locali situati in pieno centro storico, Diego Iaia ha tratto spunto da questo precedente legato alla città di Viterbo per elaborare un nuovo progetto nel solco della sua ricerca intorno alla manipolazione del reale, all’arte come rappresentazione, alla mimesi e all’imitazione.
Così come Orson Welles rivendicò l’autonomia del medium cinematografico per giustificare la libera rivisitazione e le licenze che caratterizzano il film rispetto all’originale di Shakespeare, Diego Iaia dedica il progetto Le quinte di Otello al medium pittura, solo uno dei tanti cui ricorre nella sua produzione artistica, come fonte di libertà interpretativa sull’universo del teatro in costume.
Da una ricerca infatti sugli attori di teatro dell’inizio del XX secolo, sulle loro posture, sugli abiti di scena, sui fondali e sugli allestimenti scenografici, Iaia trae alcune figure simbolo e le ambienta in uno scenario architettonico di per sé in grado di ricollocare lo spettatore all’interno della Storia. Eppure i dipinti in mostra presentano interventi che trascinano chi li guarda in un contesto contemporaneo.
Si realizza così una spirale di visione e di pensiero che parte dalla suggestione shakespeariana nell’interpretazione di Welles, passa per la comune nozione e percezione della storia e dei luoghi dove essa si è dipanata nei secoli e giunge ai giorni nostri grazie all’inserimento di elementi perturbanti che non potrebbero collocare le opere in nessun altro tempo se non l’attuale. Tutto ciò attraverso il meccanismo della ripetizione di una realtà ripetuta, dell’imitazione dell’imitato, dell’azione dell’attore: in una parola, il teatro, con le sue convenzioni e le sue infrastrutture, in particolare le quinte, che su Iaia esercitano un fascino che egli riverbera sullo sfondo dei suoi dipinti.
Le quinte di Otello è un progetto declinato su due fronti. Da una parte tre grandi dipinti in cui lo stereotipo dell’attore e il suo posizionamento nell’ambiente (per lui) naturale rappresentato dalle quinte emergono con grande forza visuale, anche in virtù della tecnica basata su strati sovrapposti di colore (prima l’olio, poi l’acrilico, infine la resina), una tecnica che rappresenta la vera e propria sigla stilistica di Iaia pittore. In ossequio all’assunto, caro all’artista, dell’impossibilità del ritratto di clonare il vero, Iaia interviene sui volti dei personaggi annullandone in buona parte le potenzialità espressive, troppo legate alla specifica vitalità di ciascun essere vivente per essere proprie anche della sua copia.
Il secondo filone della mostra è offerto da una serie di cinque ritratti-collages, inframmezzati da uno dei ritratti di gruppo che Iaia affida alla manipolazione di elenchi telefonici. L’annullamento della personalità del ritratto in questo caso è intuitivo, trattandosi di personaggi frutto dell’assemblaggio di più figure umane. Ma in questo caso l’intento di annullamento va oltre e si rivolge direttamente sulla tecnica utilizzata.
Pur rientrando ampiamente fra le tecniche già frequentate in precedenti occasioni, Iaia ironizza sul medium collage, oggetto di recente riscoperta da parte di decine di giovani e affermati artisti internazionali, realizzando opere che a prima vista sembrano collage ma che in realtà sono dipinti realizzati ad olio. Ancora una volta l’imitazione elevata a sistema.
INTRODUZIONE DI ANTONELLO RICCI:
Ricordo, qualche anno fa, una proiezione in piazza dell’Othello di Orson Welles. Ricordo quell’ovazione in coro dei viterbesi, un po’ stupiti un poco compiaciuti; ricordo le risate, i commenti ad alta voce, le strizzate d’occhio: fu proprio quando, di là dagli eleganti archi gotici della loggia papale (rifatti in studio piuttosto grossolanamente: Othello, è noto, fu impresa costellata da turbolente vicissitudini finanziarie), l’obiettivo inquadra il mare. Eppure, a rigor di finzione, non c’era proprio nulla di cui meravigliarsi: quella era Cipro, non Viterbo. Quell’improbabile mare non poteva certo dirsi inatteso. Eppure.Ha questa forza magica, il cinema (o almeno l’aveva, in quel secondo dopoguerra). Qualunque paesaggio, consegnato a una sintassi di fotogrammi, non sarà più lo stesso, quello di prima: si lascerà conoscere per vero, sì, da chi l’abbia battuto, frequentato, visitato durante la sua “precedente” vita (quella reale); conserverà, però, una non so che aura di riserbo, un senso di straneamento a fiuto, quasi fosse rinato: nelle inquadrature, nella luce, nelle vicende della pellicola su cui s’è ritrovato impresso. Ai bordi, d’ora in poi, di qualche remota plaga della nostra memoria spettatrice. Visione sospesa, sconfinante. Non importa, infatti, che il montaggio possa aver collocato, nel mondo dell’opera, in uno stesso spazio scenico, Safi - Marocco - e Viterbo - Italia - violando così ogni principio di realtà, di verosimiglianza, di non contraddizione tra gli spazi.
E ciò che in un film vale per i luoghi, non potrà che valere per i personaggi. All’arte del cinematografo tutto è concesso: creature fittizie proiettate fuori dal piatto universo della tela, dal rassicurante buio della sala di proiezione, si trovano a vagare, fantasmatiche e spaesate, nella stupefacente luce d’un mondo in carne e ossa: dove, lungo paesaggi mezzo veri mezzo sognati, ripetono in eterno quel loro certo gesto (qui, il riferimento d’obbligo è all’alleniana Rosa purpurea del Cairo, 1985). Non stupisca allora, il Lettore-spettatore, per taluni scherzi che l’immaginazione gioca: un giorno infatti - mentre, tranquillo, passeggia per selve imbalsamate, verso Vico - potrebbe occorrergli d’incontrare Chiara, che traversa il bosco andando da Francesco. Così come, sulla provinciale per Tuscania, crederà a volte, d’aver appena incrociato Otello, vestito di tutto punto (farsetto di cuoio, calzamaglia nera, lungo mantello bianco), sfrecciante in auto in direzione opposta (questo, veramente, è doppio salto mortale: chi correva verso Viterbo, a cena: l’attore o il personaggio? Ne riparlo tra poco).Dunque: due uomini di cinema, due film celebri, due diari di lavoro (curiosamente opposti).Nel 1947, in viaggio con Roberto Rossellini, Virgilio Marchi (scenografo, tra l’altro, alla metà degli anni venti, della Compagnia d’Arte di Luigi Pirandello) annota i sopralluoghi in varie località dell’Italia centrale per il Francesco giullare di dio (Abruzzo Lazio Umbria Toscana Marche, ma anche Emilia e Romagna). Dalle nostre parti, Marchi e Rossellini visitano Viterbo e dintorni. Tuscania e Pitigliano. Sono pagine eleganti, raffinate: assai particolare il taglio descrittivo, prezioso lo stile, misuratissima l’aggettivazione. Scrittore in prima persona, verrebbe da dire.
Ma non va dimenticato che lo sguardo di Marchi è anzitutto sguardo vicario, che imposta la visione, inizia a tradurre quel che il regista - in auto o in trattoria - gli va facendo immaginare (sono fantasmi che s’agitano prepotenti, in lui: chiedono d’esser evocati, riconosciuti e concretati, finalmente, in un preciso gesto di colline, sullo sfondo pittorico d’un cielo, nella chiusa forma d’un antico sito urbano): lo scenografo, dunque, cerca ripesca sogna, stròlica luoghi, come possibili fondali per intere sequenze, per singole riprese; anticipa certi tagli d’inquadratura, lègge un gioco di volumi, una profondità prospettica, immagina la giusta luce nell’ora adatta (magari, la scena deve svolgersi in tutt’altro momento, o in condizioni metereologiche diverse). Ne vien fuori, mi pare, una Tuscia magica, tutta venata d’alito fiabesco, ma anche tragica.Micheál mac Liammóir, invece. L’indimenticabile onesto Iago di Orson Welles. Scrive con fine, godibilissimo umorismo. Appunta, con scrupolo divertito, e fin nei più prosaici e quotidiani dettagli, il circo cinematografico che ruota intorno alla produzione dell’Othello. Dietro le quinte (e nel film non si dovranno vedere), tutte le scorie di realtà della lavorazione: la concitazione, gl’imprevisti, i momenti ridicoli (qualcuno inciampa, qualcun altro sbraita, le scene più semplici sono provate e riprovate alla nausea, la segretaria cerca disperatamente - e non li trova - i vecchi appunti). Ma pure, attimi d’intensa poesia (non mancano fugaci note paesaggistiche, gustosi scorci di costume locale).
E di nuovo, in mezzo alla confusa sarabanda dei nomi, degli attori-personaggi (“O.”, ad esempio, starà per Orson oppure Othello? E questi avrà recitato “l’eliminazione di Schnucks” o di Desdemona, nel tempietto di Santa Maria della Salute?), si ha netta un’impressione: che la pellicola possa aver perso pezzi, e il libro di mac Liammóir moltiplicato i contrabbandi, le confusioni tra finzione e realtà: una troupe cinematografica fu davvero tra Tuscania e Viterbo, dal 17 al 29 ottobre del 1949, per un film d’ispirazione shakespeariana; ma erano forse veri personaggi, non attori, quelli che si buttavano a dormire in chiesa su materassi di fortuna, tra un si-gira e l’altro, o bighellonavano sul set, attenti a non calpestare cavi, a non spostare riflettori, a rifarsi il trucco in tempo; infine, era proprio Iago, fuggito di pellicola, che passeggiava - finalmente! Un po’ di libertà - per le strade della Tuscia.Brani tratti dal diario delle riprese dell’attore Micheál mac Liammóir, Un onesto Iago a spasso per Tuscania, 1949 L’onesto Iago, trad. ital. Giunti, Firenze 1995, pp. 214-220, 222-225, 228-231, 233, 235-237 e raccolti nel 1998 insieme con quelli di altri viaggiatori dell'immaginario nel libro Tuscia. Viaggio in leggio Editore Sette Città.