VITERBO (UNONOTIZIE.IT)  La teoria sulla doppia identificazione cinematografica è stata elaborata da Christian Metz nell’opera Le signifiant imaginaire. Egli riflette su come il cinema spesso ci presenta delle sequenze per così dire “inumane”, cioè in cui compaiono solo oggetti inanimati o paesaggi che non offrono alcuna forma umana all’identificazione dello spettatore. Tuttavia, anche in presenza di queste condizioni, l’identificazione rimane ed è, come aveva spiegato Baudry, l’identificazione primaria. Lo spettatore, lo ripetiamo, si identifica con se stesso come sguardo, come puro atto di percezione quindi con la macchina da presa che ha guardato prima di lui ciò che egli sta guardando e la cui posizione determina il punto di fuga della prospettiva caratteristica della pittura quattrocentesca. Esistono nello specifico determinate inquadrature ed angolazioni che ci fanno sentire meglio la nostra identificazione con la macchina da presa ed impediscono il libero girovagare dello sguardo sullo schermo. Tra queste ricordiamo per esempio le soggettive che esprimono il punto di vista del personaggio o gli sguardi in fuori campo che si avvicinano allo spettatore proprio perché la sua posizione è sempre fuori campo. Il discorso sull’identificazione cinematografica primaria si collega direttamente a quello dell’impressione di realtà. Si tratta di un procedimento che, come abbiamo detto precedentemente, nasce nella pittura rinascimentale quando, grazie all’elaborazione della prospettiva e del punto di fuga, chi guarda viene a trovarsi al centro ideale della rappresentazione ed ha l’impressione di trovarsi al centro degli avvenimenti. Nel cinema questo effetto di realtà può essere definito come una sorta di rappresentazione “suturata”. La sutura non è altro che il lavoro di raccordo tra le inquadrature che chiude e completa lo spazio rappresentato intorno allo spettatore, collegandolo così alla catena del discorso narrativo. Per ottenere l’effetto con cui lo spettatore viene a trovarsi nel centro ideale della rappresentazione, occorre perciò collegare all’interno di una rappresentazione unitaria i vari punti di vista. Al cinema lo spazio suturato è dunque uno spazio unificato e compatto che produce di conseguenza un senso unitario e definito, come avviene appunto nella visione prospettica della pittura rinascimentale ma con l’aggiunta della dimensione temporale. Un esempio tipico di sutura al cinema è il campo/controcampo in cui la prima inquadratura rimanda ad una zona invisibile, ad una mancanza, mentre nella seconda inquadratura subentra qualcuno o qualcosa di ben visibile e che, proprio per il fatto di situarsi lì, annulla l’invisibilità e la mancanza. Il campo/controcampo, insomma, apre un vuoto e subito dopo lo riempie in quanto procedimento di sutura che abolisce ogni assenza. Comunque, l’identificazione con il proprio sguardo, con l’istanza della visione è esattamente l’identificazione cinematografica primaria, le identificazioni con i personaggi costituiscono invece l’identificazione cinematografica secondaria.   Lo spettatore,dopo la visione di un film, ha la tendenza a credere di essersi identificato con questo o quel personaggio per una questione di simpatia, per via del suo carattere, dei suoi tratti psicologici dominanti, del suo comportamento, un po’ come succede nella vita con le persone reali. Tuttavia, sia nel cinema che nella vita, è del processo inverso che si tratta, infatti, come ha osservato Freud, la simpatia è l’effetto e non la causa dell’identificazione. La perdita di vigilanza dello spettatore cinematografico durante la proiezione del film lo porta a simpatizzare, quindi ad identificarsi, con qualunque personaggio o quasi, basta che la struttura narrativa ve lo conduca. Non si può negare che molti film, (specialmente i più stereotipati, come le telenovelas di oggi) funzionino largamente secondo un’ identificazione alquanto monolitica, regolata da un fenomeno di riconoscimento, da una tipologia stereotipata di personaggi: il buono, il cattivo, l’eroe, il traditore, la vittima ecc. Si tratta in questo caso dell’identificazione con un ruolo tipologico, cosa che si verifica in tutti i film di finzione ed è essenziale nell’attaccamento dello spettatore al personaggio filmico.Ma l’identificazione secondaria con il personaggio non è sempre così totale e monolitica ma al contrario estremamente fluida, ambivalente e mutabile nel corso della proiezione. Se ci capita di guardare un estratto, una sequenza, talvolta soltanto pochi piani di un film che non abbiamo mai visto e quindi non conosciamo, ci possiamo accorgere di come improvvisamente anche il confronto con personaggi di cui non sa nulla desta in noi profondo interesse.Se lo spettatore “aderisce” velocemente ad una sequenza estrapolata da un film e si sente coinvolto è perché esiste sempre un’istanza identificatoria che non passa necessariamente per una conoscenza psicologica dei personaggi, dei loro ruoli, insomma di tutti quegli aspetti che richiedono un tempo lungo per riuscire a familiarizzare con la storia. Da tutto ciò si evince quanto le dinamiche dell’identificazione cinematografica siano mutevoli, reversibili, a tratti ambivalenti. Ma è anche su questa confusione e questa ambiguità che si fonda il piacere visivo del cinema.

ELISA IGNAZZI

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