IL CAPITALISMO CONDANNA IL MONDO AL SUICIDIO. necessario creare una società conviviale e non competitiva.
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Anche se a scuola ti insegnano che è stato Colombo a scoprire l’America, nessuno fa caso al fatto che è vero anche il contrario: è stata l’America a scoprire Colombo, facendone le spese. Comunque, non tutto è perduto: ci sono voluti 500 anni, ma poi i nativi hanno riconquistato San Cristobal de Las Casas, dando il via alla rivolta del Chiapas. Che anticipa di poco l’altra data-simbolo, aprile 2001, con la “guerra dell’acqua” di Cochabamba in Bolivia, contro le multinazionali della privatizzazione. Questa è la storia del pianeta, quella che conta, secondo il professor Serge Latouche, il padre della teoria della decrescita. Il mondo ridotto a merce? Guarire è possibile: archiviando il capitalismo, prima che sia troppo tardi.

Per Latouche siamo su un’auto senza freni, lanciata contro un muro: se scegliamo la “crescita con crescita”, cioè “salvando” l’attuale economia con una spettacolare “ripresa”, ci schiantiamo a trecento chilometri orari. E se invece restiamo nella “crescita senza crescita”? «Andiamo lo stesso a sbattere, magari solo a duecento all’ora». La salvezza? Cambiare tutto, abbandonare il capitalismo suicida. Perché «è inutile cambiare il software se non si cambia anche l’hardware». Economista e filosofo, professore emerito dell’università di Parigi ed esponente di spicco del Mauss, il movimento anti-utilitarista, Latouche ha fatto da mattatore il 24 febbraio nella straripante aula magna dell’ateneo bolognese.

Tema della giornata – promossa da Andrea Segrè, ideatore dei Last Minute Market – era “Come uscire dalla società dei consumi: il tao della decrescita”, spunto mutuato proprio dal titolo dell’ultimo libro del pensatore francese uscito in questi giorni per Bollati Boringhieri, “Come si esce dalla società dei consumi”. Il concetto base di Latouche, sintetizza Francesco Bevilacqua su “Il Cambiamento”, è un problema centrale: obiettivo, uscire dall’economia capitalista, che rappresenta il modello attraverso il quale si realizza la società della crescita. Il primo passo? Rompere il paradigma tipicamente occidentale del “sempre di più”, basato sulla dicotomia produzione-consumo che ha portato a ciò che oggi viene chiamato globalizzazione.

In realtà i mercati sono mondializzati già dal 1492, quando appunto «l’America scoprì Colombo». Poi, dopo il fatidico 1989 con la caduta dell’Urss e la fine dei blocchi contrapposti, è cominciata la omni-commercializzazione del mondo. «Si è instaurata così l’economia della crescita, il cui fine non è quello di crescere per soddisfare i bisogni, bensì quello di “crescere per crescere”, attraverso un processo che parte dalla produzione, prosegue con il consumo a cui segue la produzione dei rifiuti, il tutto con un profitto sempre maggiore che arricchisce un numero di persone sempre minore».

Proseguendo nella sua analisi, l’autore de “La scommessa della decrescita” insiste sulla rivolta del Chiapas del 1994 e poi sull’intifada dell’acqua pubblica in Bolivia: «L’insegnamento importante di questi due episodi è la forza della spinta dal basso che mira a risolvere il problema, a ottenere dei diritti e non a conquistare meramente il potere». Come dice lo stesso subcomandante Marcos, «non vogliamo prendere il potere, perché sennò saremmo presi noi stessi dal potere». Da qui nasce qualcosa di nuovo, come testimoniano le costituzioni di Ecuador e Bolivia recentemente approvate, in cui per la prima volta viene dichiarato esplicitamente che il fine della società è il benessere e non la prosperità economica.

Benessere, annota “Il Cambiamento”, che in spagnolo viene reso dal termine “buen vivir”, oramai una parola-chiave per il movimento della decrescita. La natura diventa soggetto di diritto, non più alla mercé della società dei consumi. Latouche, continua Francesco Bevilacqua, si diverte a citare l’humour nero di Woody Allen, secondo cui l’umanità si trova ormai di fronte a un bivio: da una parte si va verso la scomparsa dell’uomo, dall’altra verso la disperazione. Ad accelerare la scomparsa è «la società della “crescita con la crescita”»: un suicidio accelerato, provocato dall’uomo onnivoro e irresponsabile che agisce solo in base alla immediata convenienza economica, senza curarsi delle conseguenze.

Dietro l’angolo – ormai lo ammettono tutti – c’è il pericolo della catastrofe climatica: nei prossimi anni la temperatura media aumenterà di almeno due gradi, provocando la scomparsa di molte specie, l’inaridimento dei suoli, carenza idrica, fame, esodi biblici. Decrescere, per evitare crisi umanitarie? Troppo tardi: il futuro prossimo è già scritto, anche nel caso in cui attuassimo sin da subito una (improbabile) riduzione drastica dei consumi e delle emissioni. Se poi non ci fosse neppure un’inversione di tendenza, si spalancherebbe l’inferno: «L’aumento della temperatura potrebbe arrivare anche a sei gradi e in quel caso le condizioni di sopravvivenza della vita stessa sul pianeta sarebbero messe a repentaglio».

È a questo punto che Latouche ripropone uno dei suoi concetti chiave, “decolonizzare l’immaginario”, espressione che ricalca il titolo di un suo saggio uscito nel 2002 per la Emi. Bonificare la mente dal colonialismo culturale? E’ la sola via d’uscita dal vicolo cieco della crescita. Servono parole e azioni: in concreto, adottare un nuovo stile di vita. E contano molto anche le idee: «Decolonizzare l’immaginario a livello delle parole – spiega Bevilacqua – vuol dire riappropriarsi di termini e concetti che oggi sono stati completamente traviati: sviluppo, crescita e progresso sono infatti parole che derivano dalla biologia», scienza nella quale trovano un senso appropriato. Invece, «gli economisti li hanno importati, applicandoli all’economia in maniera impropria e parziale: dimenticandosi che, in un ciclo vitale, a crescita e sviluppo segue inevitabilmente la morte dell’organismo».

Tutti noi siamo quindi stati “economicizzati” fin dalla giovane età, grazie alla scuola che ha inculcato nelle nostre menti i modelli della crescita occidentale e della rivoluzione industriale. Narrazione artificiosa e tendenziosa: falsificazione di massa, sistematica, al servizio della psicologia sociale capitalistica. Un esempio? La “grande bolla speculativa del mito della crescita occidentale” viene insegnata a partire da Adam Smith e dal suo “La ricchezza delle nazioni” e prosegue nella vita quotidiana grazie al consueto bombardamento mediatico. «Esiste tuttavia una verità storica che viene mistificata – spiega Latouche – e che racconta non di “ricchezza delle nazioni”, bensì di arricchimento della borghesia e delle élite industriali e di impoverimento dei contadini e degli artigiani, con innumerevoli esempi di società compromesse dall’allargarsi di questa forbice, dall’Inghilterra all’India».

Poi il capitalismo si è trasformato in un sistema termoindustriale grazie alla seconda rivoluzione inglese e all’avvento decisivo delle macchine. Come spiega fra gli altri anche Marx, questo ha permesso di accumulare una quantità enorme di merci che andavano però consumate, ragion per cui si è verificato un apparente miglioramento delle condizioni di vita delle classi più deboli, messe nelle condizioni di acquistare le nuove merci prodotte in serie. Nell’ultimo dopoguerra, si è infine arrivati al perfezionamento del sistema capitalista grazie all’aggiunta di tre nuovi ingredienti: il marketing, che consente di creare desiderio di possesso, dipendenza e frustrazione; il credito, strumento studiato per permettere di acquistare anche a chi non ne ha la possibilità; e infine l’obsolescenza programmata, che imponendo un’aspettativa di vita sempre più breve alle merci prodotte favorisce il ricambio e quindi l’acquisto di nuovi manufatti.

L’ultima rivoluzione, continua “Il Cambiamento” è quella degli idrocarburi, in occasione della quale ha fatto irruzione sulla scena il petrolio, risorsa efficientissima e apparentemente inesauribile. «In realtà, così come possiamo ammirare l’immagine di una stella lontana migliaia di anni luce che in realtà è scomparsa da tempo, il nostro sistema economico si basa su una fonte energetica che è già in via di esaurimento, ma siccome la vediamo ancora ampiamente impiegata nella nostra quotidianità non immaginiamo che sia prossima alla fine». Focalizzandosi sugli obiettivi, Latouche ribadisce l’importanza di uscire dal paradigma della società dei consumi che si sorregge sull’economia, la quale, così com’è concepita oggi, è solo un’invenzione artificiale della modernità.

Al contrario, l’economia deve essere ricondotta al suo ruolo subordinato alla sfera sociale e politica: «Non possono esistere leggi economiche che regolano la società, poiché solo i rappresentanti istituzionali eletti dal popolo hanno il potere di stabilire e far rispettare le norme: non certo istituti finanziari, banche e fondi monetari che operano esclusivamente nella logica del profitto». La nuova società si dovrebbe quindi basare su quella che il decrescitista francese chiama “abbondanza frugale”, l’esatto opposto della scarsità indotta dalla società dei consumi che, per sua natura, ha bisogno che la gente provi sempre una sensazione di privazione, da cui deriva il desiderio di acquisto.

Ragionando nei termini del paradigma consumista, “abbondanza frugale” sembra un ossimoro senza senso, ma l’unica via per conoscere la vera abbondanza è limitare i propri bisogni, cioè vivere seguendo uno stile sobrio, archiviando la logica del profitto e rispolverando quella dello scambio alla pari, del baratto e del dono. Se per Ivan Illich le macchine finiscono per produrre nuovi schiavi, Latouche non trascura di citare quelle innocue, al servizio dell’uomo, come la bicicletta e la macchina da cucire. Come diceva Illich, la società deve diventare conviviale e non-competitiva, non più dominata da caste ma autogovernata da democrazie locali. Si arriva fino al “municipalismo libertario” di Murray Bookchin, fondato sull’interazione confederale fra piccoli sistemi territoriali. Insomma: va davvero ripensata la governance del mondo, prima che sia troppo tardi.

E Woody Allen? Il suo bivio fa paura: specie la via della “crescita senza crescita”, cioè quella della crisi di oggi, in cui la “società della crescita” che ha puntato tutto sullo sviluppo non riesce più a espandersi e si dibatte nella disperazione, tra disoccupazione ed emergenze sociali, economiche e ambientali. Né rilancio dei consumi né austerità imposta, avverte Latouche: per attuare il cambiamento ci vuole una rivoluzione culturale. Parola d’ordine: ridurre i consumi. Altrimenti, «il progressivo esaurimento delle ultime risorse ci porterà verso una dittatura terribile che deciderà con la forza chi può consumare e chi no». Come, di fatto, in molti luoghi avviene già. Resta una sola via sicura, quella della decrescita. Che è antichissima, quanto la filosofia zen. Ecco allora “Il Tao della decrescita”: si può arrivare alla felicità solo imparando a limitare i propri bisogni. Chissà cosa ne penseranno i 9 super-banchieri che una volta al mese si vedono in gran segreto a Manhattan per progettare manovre planetarie, favolose speculazioni e inevitabili “guerre umanitarie”.



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